Il cancro nel secolo XX e ancora oggi nell’immaginario comune è sinonimo di paura e sofferenza.
Queste idee ruotano dentro e attorno sia a chi si ammala che ai famigliari dal momento della diagnosi.
In altri termini la paura diviene un mito potente e pericoloso in quanto deforma l’esperienza del malato che ha bisogno invece della totale integrità ed equilibrio psicologico per aumentare al massimo l’efficacia delle cure.
Spesso infatti il paziente vive la malattia come un oscuro male che ti tradisce quando meno te lo aspetti, che ti pugnala alle spalle e che ti pone in una condizione su cui non si ha nessun controllo.
E purtroppo sono molti i pazienti che “muoiono di paura” ancor prima che per la malattia, confermando statistiche e prognosi.
Invece di fronte a qualsiasi altra patologia, per esempio quella cardiaca, grave e possibilmente mortale, si è tesi a provocare una reazione della mente , prima che del corpo.
Inoltre spesso medici e paramedici, tesi a tentare di distruggere l’elemento cancro, non hanno la possibilità di tenere in conto i sogni, le aspettative e i desideri della persona ammalata.
Fin dai primi anni del 900 il mondo medico ha sentito la necessità di mantenere una visione globale del paziente affetto da patologia somatica e di approfondire la conoscenza di come la mente, le emozioni e la vita psicologica del paziente stesso possano influenzare il decorso della malattia.
Gli anglosassoni hanno avuto un ruolo guida in questo campo.
Era importante infatti studiare le connessioni mente corpo per poter preservare la qualità di vita del paziente malato di cancro, riconoscendo in ogni momento il bisogno di essere parte attiva nel processo di cura.
Metodo Simonton
Nel 1978 l’oncologo O. Simonton e la moglie S. Matthews pubblicarono un piccolo libro: “ Get Well Again”.
In questo libro i due ricercatori, che lavorarono con una casistica molto ampia di pazienti, puntarono l’attenzione del mondo medico ufficiale sulla necessità di considerare la malattia neoplastica nei termini più globali di cura dell’individuo e non solo cura del problema fisico.
Si accorsero che stati emotivi e mentali avevano un enorme peso non solo nella suscettibilità dell’insorgenza della malattia ma anche e soprattutto nella guarigione della malattia stessa.
Lo studio dei Simonton partì dall’osservazione che tra pazienti con uguale prognosi e uguali aspettative secondo la medicina ufficiale , alcuni, forse la maggior parte stando alle statistiche, morivano, altri potevano vivere oltre le aspettative se non addirittura guarire.
Non vi era nessuna spiegazione medica o scientifica in questo diverso decorso semplicemente i pazienti che miglioravano le loro condizioni avevano una volontà di vivere che non si limitava all’allontanarsi dalla paura di morire.
In loro la volontà di vita era ardore di vita che si tramutava in comportamenti congrui e responsabili con questa intenzione paradossalmente dopo essere passati attraverso l’accettazione del fatto che la morte (e non nella sua negazione) era una delle possibili evoluzioni.
Simonton notò che questo processo di percezione passava attraverso le esperienze più disparate ( ipnosi, yoga, particolari diete) che attivavano risorse che per ognuno di loro erano uniche e che in qualche modo li avviava verso il processo di guarigione.
Ma la cosa più importante che notarono era che spesso il miglioramento e la guarigione fisica coincidevano con la guarigione delle loro relazioni stressanti , cioè con la risoluzione di quello stato di paralisi e limitazione in cui viveva il loro mondo emotivo prima della diagnosi.
Anche se i testi di oncologia hanno sempre parlato del lavoro dei Simonton come di un metodo non scientificamente provato, l’American Cancer Society ne raccomanda l’uso come terapia aggiuntiva.
La stessa associazione nel 1980, durante una conferenza, ha preso in esame gli aspetti psicosociali della malattia e ha sancito la necessità di un’integrazione tra scienze psicologiche e oncologiche nella lotta al cancro.
E’ nata così una nuova area di lavoro la psico-oncologia che occupandosi della dimensione psicologica del paziente neoplastico, ha sicuramente dimostrato, soprattutto attraverso l’uso dell’ipnosi e dell’autoipnosi, un netto miglioramento della qualità di vita del paziente nel momento in cui si interviene con strategie di attivazione e sostegno della mente.